Cross-over: “Fondamentale della pallacanestro dove, con un cambio di direzione e velocità, il quale permette all’attaccante di sbilanciare e battere in palleggio il difensore.”

Non c’è probabilmente movimento più struggente che possa subire un difensore. Ti senti inerme, sbilanciato e deriso dall’avversario, dal pubblico che ti sta osservando perdere l’equilibrio e, anche un po’, dal mondo intero. Inutile quanto tu possa cercare di mantenere il contegno in queste situazioni, l’attaccante ha ormai trovato lo spiraglio dove poterti colpire ed affondare.

Movimento tutt’altro che semplice, che ne fa di chi lo utilizza il pittore perfetto del quadro che si sta per dipingere, come il protagonista della storia che vi stiamo per raccontare.

Tanto unico quanto inimitabile.

Tanto basso quanto efficace.

Tanto duro quanto la vita che ha vissuto.

Annata 1996-97. Una stagione che entrerà nella storia per la quantità di talento sproporzionata che il Draft NBA ha saputo offrire: Kobe Bryant, Jermaine O’Neal, Ray Allen, Shareef Abdul-Rahim, Stephon Marbury ed un tipo bassetto, proveniente da Georgetown University. Chicago Bulls apparentemente imbattibili, forti delle 72 vittorie della stagione precedente e campioni uscenti dopo il ritorno in campo dell’altro protagonista di questa storia, con una numero 23 sulle spalle.

Il signore uscito dal Draft, quello bassetto, era l’attrazione principale di una Philadelphia che fremeva per un tipo come lui: fiero, di cuore e tremendamente ipnotico per le difese. Allen Iverson si riscoprì simbolo di una nuova era in casa Sixers, idolatrava il signore con il n. 23 e sapeva quanto fosse difficile batterlo in palleggio.

Ma questa è una storia di destino e crossover per un motivo.

12 Marzo 1997: i 76ers ospitano i Chicago Bulls, arrivati Philadelphia con un imbarazzante record di 55-8 contro una squadra in via di ricostruzione, in difficoltà e alla scoperta delle future carte che la riporteranno grande nel giro di qualche anno.

Iverson in quella partita ha il matchup diretto con Michael Jordan, il quale conosce la pericolosità offensiva del ragazzo.

Lo guarda, lo istiga, lo stuzzica.

“What’s up, you little b***?”

AI lo guarda dalla testa ai piedi. Era un suo fan, aveva le sue Jordan ai piedi, eppure: Sapevo che, una volta che la palla si fosse alzata in aria, avrei fatto di tutto per far ricordare, oltre alla n.23 di Jordan, anche la mia n. 3”

Poi il fatto.

Punta dell’arco, controllo con la sinistra.

Prima finta, Jordan abbocca ma non demorde.

Seconda finta, in mezzo alle gambe.

Michael Jordan sbilanciato.

Fondo della retina.

Philadelphia scioccata.

Estasi generale.

Il destino, da quella partita, lo ricorderà per sempre come uno dei più grandi.  L’MVP di qualche anno dopo, praticamente vinto da solo e rubato direttamente dalle mani di Shaquille O’Neal è la prova che, nonostante non ci sia un anello a comprovarlo, sarà ricordato come uno dei più forti ad aver mai toccato uno Spalding in NBA.

The Answer, Allen Iverson.