Stagione 2010/2011: Brandon Roy gioca appena 47 partite, causa la sua condizione fisica, non regge più il minutaggio dei primi anni e non è più quel giocatore incisivo che era stato e che poteva cambiare una partita prendendosi la squadra sulle spalle. Nonostante ciò i suoi Portland Trail Blazers conquistano i playoff (questo è il terzo anno consecutivo che i Blazers riescono a giungere ai playoff). Primo turno, i Blazers incontrano i Mavericks, provenienti da una stagione eccellente con un record di 57-25, coronata con il titolo vinto ai danni dai Miami Heat.

I Dallas Mavericks sono i favoriti (e infatti supera il primo turno per 4-2). Ma durante la serie avviene una sorta di rinascita di quel talento perduto di  Roy: si gioca gara 4 al Rose Garden (Dallas è in vantaggio nella serie 2-1). I Texani hanno un vantaggio di quasi 20 punti all’inizio del quarto periodo, 67 a 49: risultato finale dato quasi per scontato. Chi sa qualcosa del basket, chi ha un po’ di esperienza in questo sport, sa che niente nella pallacanestro può essere dato per scontato, soprattutto se manca ancora un quarto da giocare. E quello che accade in questo quarto è qualcosa di unico, una sorta di rinascita di un talento ormai ecclissato a causa di una condizione fisica non ottimale, una rinascita che avviene, anche se per soli 12 minuti, agli sgoccioli di una carriera travagliata da continue difficoltà e numerosi interventi, in un’annata nella quale Roy ha fatto registrare la media più bassa della sua carriera, appena 12 punti a partita, neanche cosi pochi per uno ridotto alla sua condizione fisica. È come se all’inizio dell’ultimo quarto Brandon sia entrato in una sorta di trance agonistica, capace di farlo tornare al suo periodo migliore, portandolo a prendere in mano la partita e a trascinare i suoi compagni in una cavalcata verso la vittoria. Il talento dei Blazers si prende carico delle responsabilità di tutta la squadra, inizia ad attaccare ripetutamente l’area, cercando di giungere al ferro ma cosciente del fatto di non avere più la resistenza di un tempo: segna da 3, segna appoggiando al tabellone, segna da due con un arresto e tiro ai danni di un Kidd quasi passivo. E ancora segna da due in faccia a Nowitzki, e smista assist per i compagni, e segnerà ancora, inventandosi anche una giocata da 4 punti ad 1:06 allo scadere. Alla fine della partita Brandon avrà segnato 24 punti, dei quali 18 solo nell’ultimo quarto con un 8 su 9 al tiro. Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di riassumere la storia di questo talento.

 

Brandon Roy nasce a Seattle, la città più grande del Pacific Northwest, portatrice di una cultura non solo cestistica ma anche musicale, patria di numerosi musicisti eterogenei. Da ragazzo giocherà per la Garfield High School, per poi andare successivamente alla Washington University (superando in maniera difficoltosa i test d’ingresso) dove giocherà per gli Huskies, guidati da Lorenzo Romar, insieme a un piccoletto, che sarebbe diventato noto con il soprannome di Krypto-Nate: stiamo parlando di Nate Robinson, la stella della squadra. Il primo anno Brandon avrà molte difficoltà ad ambientarsi. L’anno successivo Nate si dichiara eleggibile per il draft (scelto con la ventunesima chiamata dai Suns, per essere poi scambiato con i Knicks per Kurt Thomas), facendo sì che la stella della squadra diventasse Brandon, che chiude la stagione con una media di oltre 20 punti a partita. A questo punto Roy si dichiara eleggibile al draft ritenendosi abbastanza maturo maturo per l’esperienza NBA.

Al draft del 2006 verrà scelto alla sesta chiamata dai Timberwolves (alla prima il nostro Andrea Bargnani), per essere poi scambiato con Randy Foye proveniente da Portland. Nella partita d’esordio il talento dei Blazers segnerà 20 punti e concluderà il primo anno con una media poco superiore ai 16, abbastanza per permettergli di vincere il titolo di Rookie of the Year. Ma si fanno sentire già i primi acciacchi, tanto da giocare nella stagione successiva solamente 57 partite: nonostante ciò viene eletto per l’All Star Game.

 

Nel frattempo Portland diventa una squadra capace di giungere ai playoff e giocarsela con le migliori.

Arriva Greg Oden a rinforzare una squadra composta da buoni elementi come Aldrige e lo stesso Roy. Ma i problemi fisici di Brandon si fanno sempre più gravi: è costretto a subire alcuni interventi alle ginocchia. Recupera velocemente, riuscendo a tornare in campo per la partita di apertura della stagione 2008/2009, anno della consacrazione di Portland ( Brandon concluderà la stagione a quasi 20 punti di media)  riuscendo a concludere la regular season con un record di 54-28 e arrivando al traguardo playoff, dove verranno, però, sconfitti dai Rockets di Tracy McGrady.

Anche l’anno successivo i Blazers si riconfermano una squadra capace di giungere ai playoff, con un record di 50-32. Le condizioni fisiche di Roy si fanno sempre più precarie: i suoi problemi diventano sempre più gravi e persistenti, costringendolo a ridurre il minutaggio e giocando solamente 47 partite durante la stagione 2010/2011. Portland riuscirà comunque ad arrivare ai playoff. Brandon ha ormai perso la stoffa di un tempo, ingannando però tutti quella sera in cui segnò 24 punti in gara 4 contro Dallas. Nel 2011 annuncia il suo ritiro, ma tornerà nel 2012 con la canotta dei Timberwolves, giocando appena 5 partite. Brandon Roy è la dimostrazione che il talento vale, vale molto, ma che, spesso, da solo non basta e deve essere supportato dalla fortuna: fortuna che, nel suo caso, è venuta a mancare completamente. Questa è la storia di un grande talento che non si è arreso, che ha cercato di fronteggiare le difficoltà che ha incontrato durante il suo percorso, ma che non ha potuto niente di fronte a una sorte avversa.

 

Luca Buttitta