Dal punto di vista del risultato, la trasferta di San Antonio non ha regalato particolari gioie ai Cleveland Cavaliers, sconfitti per 114-102 dai padroni di casa degli Spurs. All’AT&T Center, del resto, quest’anno sono riusciti ad imporsi soltanto i campioni in carica dei Golden State Warriors, gli Indiana Pacers e i Milwaukee Bucks, con gli Speroni che hanno portato a casa la vittoria tra le mura amiche nelle restanti venti gare disputate di fronte al proprio pubblico.

A rendere meno amaro il ko ci ha pensato il traguardo, l’ennesimo della sua gloriosa carriera, centrato da LeBron James, che grazie ad una sontuosa prestazione da 28 punti, 9 rimbalzi e 7 assist è riuscito a toccare quota 30.000 punti segnati, arrivando a 30.021 per l’esattezza, entrando quindi a far parte dell’esclusivo club composto dai giocatori riusciti in tale impresa, ossia Kareem Abdul-Jabbar, Karl Malone, Kobe Bryant, Michael Jordan, Wilt Chamberlain e Dirk Nowitzki. Inutile dire che si tratta di un’impresa leggendaria (peraltro compiuta in uno degli stadi più evocativi della lega, quello dei San Antonio Spurs), cui peraltro il protagonista non è nuovo.

Dai suoi primi passi nella lega ad oggi, infatti, LeBron James è riuscito ad infrangere numerosi record e a scrivere un pezzo importante della lunga ed appassionante storia del basket a stelle e strisce. Tra prestazioni memorabili e innumerevoli trofei vinti (tre anelli, quattro MVP della regular season, tre MVP delle Finals, due MVP dell’All-Star Game, un Rookie of the Year e due ori olimpici con il Team USA), The King è da tempo una vera e propria icona della NBA e i suoi autentici capolavori non fanno più notizia, non perché non siano meritevoli e degni di lode, tutt’altro. Semplicemente, perché il fuoriclasse di Akron trasforma lo straordinario in ordinario, rendendo tutto così maledettamente semplice.

Spesso e volentieri l’importanza dei suoi risultati viene banalizzata da controproducenti quanto sterili paragoni con altri campioni del passato e del presente, tra questi in particolar modo Michael Jordan e talvolta Kobe Bryant. Confronti del genere non fanno altro che sminuire la grandezza dei fenomeni in questione, impedendo di vivere ognuno come fosse membro di una grandissima famiglia che fa divertire e sognare i propri appassionati, quella della NBA, appunto. LeBron è innegabilmente l’icona più rilevante dell’epoca moderna della pallacanestro made in USA e nelle sue due esperienze professionali e di vita, a Cleveland e a Miami, ha ottenuto traguardi storici.

Selezionato con la prima scelta assoluta al Draft 2003 (e non poteva essere altrimenti), ad appena 18 anni si è rivelato sin da subito adatto ad un contesto tanto spettacolare ed affascinante quanto impegnativo e complicato qual è quello della NBA, per poi divenire in breve il leader indiscusso della squadra e trascinarla per la prima volta nella sua storia alle Finals, poi perse 4-0 contro gli inarrestabili San Antonio Spurs di Duncan, Parker e Ginobili, guidati dalla mano sapiente di Gregg Popovich. A Miami, invece, ha composto un Big Three d’eccezione con Dwyane Wade e Chris Bosh, altri campioni usciti dal Draft 2003, portando la squadra al trionfo nel 2012 contro gli Oklahoma City Thunder e nel 2013 contro i San Antonio Spurs.

Tornato poi a Cleveland, ci ha messo poco ad imprimere la propria identità vincente alla franchigia dell’Ohio, riprendendo da dove aveva finito il proprio progetto, ossia quello di rendere i suoi Cavs una squadra vincente e regalare un titolo alla città che l’ha visto crescere. Missione compiuta, dopo la beffarda sconfitta del 2015 con i Golden State Warriors, nel 2016, con la storica rimonta da 3-1 a 4-3 che non era mai riuscita a nessun’altra squadra in finale. Un vero e proprio capolavoro, ma soprattutto il giusto premio per un fuoriclasse che prima di essere tale è un semplice ragazzo nato e cresciuto ad Akron, non molto lontano da Cleveland.

Di Finals ne ha perse anche parecchie, come l’anno scorso, sempre contro i Warriors, per la precisione cinque sulle otto che ha disputato, ed anche per questo è stato spesso e volentieri attaccato dai suoi detrattori. Anche questa critica, però, non regge: le Finals sono partite in cui non contano solo i valori tecnici, la tensione è alle stelle e una sconfitta, così come una vittoria, va sempre letta come una conseguenza dell’atteggiamento dell’intera squadra e non di un singolo giocatore (basti pensare che James ha concluso le scorse Finals con la tripla doppia di media, ma ciò non è bastato per evitare il 4-1 inflitto ai Cavs da Golden State). Ciò detto, va aggiunto un dettaglio molto rilevante quanto fondamentale: per perdere le Finals, bisogna prima di tutto giocarle, e questo è un privilegio per pochi.

Giocarle otto volte in quattordici anni di carriera, di cui ben sette volte consecutive, significa avere qualcosa di speciale, una mentalità che modifica radicalmente le ambizioni dell’intera squadra. LeBron, in sostanza, è l’ago della bilancia e una legge non scritta dice che con lui le probabilità di vittoria aumentano in maniera netta. È successo a Miami (senza nulla togliere a Wade, Bosh e al sempiterno Ray Allen), è successo a Cleveland (con un buon contributo da parte del suo “allievo” Kyrie Irving) e presumibilmente succederà ancora tante altre volte, nella sua Cleveland o, molto più realisticamente, in un’altra franchigia. In questo senso, la prossima estate sarà fondamentale per capire quale sarà l’ennesima svolta di una carriera che, comunque vada a finire, è esemplare, degna dei migliori libri di storia.

Nel frattempo, ignari di quello che accadrà, possiamo soltanto concentrarci sul presente ed ammirare in tutte le sue meravigliose sfaccettature un campione che a 33 anni suonati continua ad emozionare e a stupire, addirittura lavorando duramente per migliorare ed affinare le sue abilità, in particolar modo nel tiro dalla lunga distanza. Anche questo dimostra la grandezza della persona, prima che del campione: il non dare mai niente per scontato, prendendo in mano il proprio destino senza lasciare nulla al caso. E così, dopo aver avuto accesso al mitico Olimpo dei 30.000 punti, siamo certi che il Prescelto troverà il modo di sorprenderci ancora a lungo.