Più che un racconto, questa sarà una riflessione su uno dei giocatori più iconici e amati della storia di questo sport, un uomo in cui la forza di volontà è andata oltre, tale da diventare ossessione, ossessione riguardo ogni aspetto del suo gioco, dal palleggio, al movimento senza palla, al suo unico jumper shot. Un uomo che ha saputo al momento giusto riconoscere il suo ruolo nella squadra, decidendo di fare un passo indietro per il bene del collettivo. This is Jesus Shutterworld, meglio conosciuto come Ray Allen.

Si innamora di questo sport alla tenera età di 10 anni, quando con i suoi amici andava a giocare nei campetti vicino casa, accompagnato da mamma. Durante l’adolescenza, decide di scriversi all’università del Connecticut. Dopo una crescita durata un triennale decide di fare il grande passo, dichiarandosi eleggibile per il draft: era il 1996 quando Ray Allen viene selezionato alla quinta chiamata dai Minnesota Timberwolves, venendo però successivamente scambiato con i Milwaukee Bucks per Stephon Marbury. Ai Bucks va a completare una ottima rosa, con Glenn Robinson e Sam Cassel: un’ottima squadra, sicuramente, ma i Milwaukee Bucks riescono ad arrivare solamente alla finale di conference durante la stagione 2000/2001. E da qui passiamo al 2003, quando venne ceduto ai Seattle Supersonics, dove giocherà forse la sua miglior pallacanestro, certamente la migliore prima della sua trasformazione.

Intanto passano gli anni, precisamente otto, tutti conclusi con almeno 20 punti di media. Affermata stella della lega, uno dei giocatori più acclamati; capisce però che era necessario cambiare aria, assetato di vittoria. Finalmente arriva la svolta, quando nel 2007 venne ceduto ai Boston Celtics, insieme a Glen Davis, in cambio di Delonte West e Wally Szczerbiak. A Boston si aggiunge un altro tassello, fondamentale per la riuscita del sistema dei bianco-verdi: si forma il trio Garnett, Pierce e Allen. La sua prima esperienza ai Celtics è quella che ci può far capire l’essenza del suo giocatore. Al suo esordio, il 2 novembre, segna 17 punti, diventati 30 in quella successiva, concludendo con 7/11 da 3. Oltre a ciò da ricordare il record di 66/16, che valse la testa della classifica. Ray gioca un eccellente RS, con un 40% da tre. L’estrema facilità della regular season non sarà riscontrata ai playoff, dove i Celtics faticano già al primo turno contro Atlanta Hawks, dove Allen non riesce a brillare, come alle semifinali, dove i bianco-verdi superano con difficoltà i Cleveland di LeBron.

Dopo una difficile finale di conference contro i Detroit Piston, dove Jesus mette a referto 26 punti in Gara 6 e 17 in Gara 7, riesce finalmente a raggiungere l’obbiettivo Finals, dove i Celtics incontrano gli storici nemici: i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant. Ciò per cui Ray ha stupito durante quelle finals non è tanto la sua solita elegante e concreta fase offensiva, ma l’impressionante difesa sul Mamba, limitandolo, quasi annullandolo in attacco, non lasciandolo libero nemmeno per un secondo, pressandolo fino allo sfinimento e costringendolo a prendere sempre tiri forzati. Tutto ciò accompagnato da un’ottima prestazione in Gara 3, dove Allen firma un pitturato di 25 punti, ma soprattutto in Gara 7, chiudendo con 26 punti. Cosa però è cambiato in lui da quando è giunto a Boston? Nel corso della sua esperienza a Milwaukee e a Seattle, Ray era identificato come stella della squadra, come primo violino, eccezionale in numerosi aspetti offensivi, partendo dall’1 vs 1 e concludendo con il suo rapido arresto e tiro. Giunto a Boston però, Allen si deve confrontare con un’ambiente diverso, nuovo da un certo punto di vista, dove viene reclutato per completare un sistema complesso, basato su un gioco che non vede come protagonista solo lui, ma soprattutto che prevedeva alcuni cambiamenti sull’aspetto tecnico di Ray. Allen capisce che è il momento di rivedere il proprio gioco e di lasciare più spazio al collettivo, ridimensionando il suo basket, concentrandosi con ossessione sul tiro, rendendolo fluido, veloce preciso: in una sola parola, PERFETTO.

Conclusasi l’era dei Big Three a Boston, Ray decide di giungere a Miami, per giocare alla corte del Re, insieme a Bosh e Wade. Il 2013 è un anno speciale per lui, in cui gioca un’ottima stagione, coronandola con il titolo vinto ai danni dei San Antonio Spurs. E in quelle finals succede qualcosa a dir poco incredibile, sicuramente uno dei momenti più memorabili della storia di questo sport. Gara 6 delle finals tra Miami Heat e San Antonio Spurs, con la squadra di Pop che conduce la serie per 3-2. Mancano poco più di dieci secondi, Spurs sopra di tre, palla a LeBron che tenta la tripla; la palla viene sputata dal ferro, si prevede il peggio, ma dalla mischia sotto canestro prende il volo Chris Bosh che prende il rimbalzo, vede Ray Allen spostarsi fuori dal perimetro; Ray riceve e fa scoccare il tiro: la palla parte dalle mani fatate, adrenalina, eccitazione, la palla compie la parabola, tachicardia, la palla entra, infarto, stupore. Gli Heat vincono ai supplementari, per poi vincere il titolo con il successo in Gara 7.

Un giocatore eccezionale, caratterizzato da un’eleganza unica, un tiro a dir poco perfetto, una versatilità incomparabile nella storia di questo sport. Scrittore di meravigliose pagine della pallacanestro moderna, è il perfetto prodotto di una vita di sacrifici, allenamenti, ossessioni. Un giocatore umile che si è saputo mettere al servizio dei compagni.

Questo, semplicemente, è Ray Allen.