La notizia della tragica scomparsa di Kobe Bryant, deceduto a soli 41 anni insieme alla figlia Gianna di 13 in seguito a un incidente in elicottero, ha gettato nello sconforto un po’ tutti, non soltanto gli appassionati di pallacanestro e di sport in generale. Perché Kobe era molto più di una leggenda del mondo NBA, era un’icona sportiva a livello globale, un punto di riferimento e una fonte d’ispirazione per milioni di persone, capace di lasciare un segno indelebile sia sul parquet che fuori. Oltre ad essere stato uno dei giocatori più forti della storia della NBA, infatti, Bryant era un uomo straordinariamente intelligente e anche nella vita di tutti i giorni sapeva sempre vedere oltre e non si fermava mai di fronte alle apparenze o ai primi ostacoli.
Anche e soprattutto per questo motivo, il Black Mamba ha fatto innamorare una generazione del campione che fu e dell’universo cestistico a stelle e strisce. Cresciuto in Italia al seguito del padre Joe, ex giocatore in quel di Rieti, Reggio Emilia, Pistoia e Reggio Calabria, Kobe ha sempre messo in evidenza il suo amore per la cultura e tradizione italiana, non rinnegando mai le sue radici e tenendo spesso e volentieri discorsi in italiano in pubblico, come quello di ringraziamento per l’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione vinto nel 2018, grazie al suo bellissimo “Dear Basketball”, ispirato alla sua lettera d’addio al basket per The Players Tribune.
Selezionato con la tredicesima scelta assoluta al Draft 1996 dagli Charlotte Hornets, questi ultimi lo scambiarono immediatamente ai Los Angeles Lakers, dove rimarrà per tutta la sua ventennale carriera e vincerà praticamente di tutto: cinque titoli NBA, due MVP delle Finals, un MVP della regular season nel 2007-2008, quattro MVP dell’All-Star Game e due titoli di miglior scorer stagionale (35.4 punti nel 2005-2006 e 31.6 punti nel 2006-2007). Non meno importanti il successo allo Slam Dunk Contest nel 1997 e le diciotto convocazioni all’All-Star Game.
Kobe non ha avuto il miglior impatto possibile col mondo NBA, tanto da essere esploso definitivamente soltanto tra il secondo e il terzo anno, dopo aver disputato una stagione da rookie in tono minore. Se negli anni successivi è poi diventato il giocatore che (per fortuna) abbiamo avuto di ammirare a lungo è grazie al suo lavoro maniacale, alla sua ossessiva e costante voglia di perfezionarsi e di raggiungere tutti i suoi obiettivi.
Bryant era prima di tutto un amante del gioco e metteva il divertimento su tutto, ma il suo spirito agonistico e combattivo lo trasformavano nel Black Mamba ogni qual volta scendeva in campo e distruggeva le difese avversarie col suo morso velenoso e letale. Tra i suoi tanti ex compagni di squadra e estimatori che hanno voluto ricordarlo, non possiamo non citare Allen Iverson, rivale di mille battaglie nei primi anni 2000 e che ha recentemente raccontato un aneddoto che descrive al meglio la personalità di Kobe: “Mi ha aiutato molto nel nostro anno da rookie. Una volta mi portò al ristorante e dopo la cena mi chiese cosa avessi intenzione di fare dopo. Io gli dissi che sarei andato in discoteca e lui mi rispose che sarebbe andato ad allenarsi in palestra.”
Kobe, infatti, non lasciava mai nulla al caso. I suoi innumerevoli record e traguardi, le sue prestazioni da antologia, il patrimonio sportivo e umano che ha ispirato e fatto innamorare milioni di persone sono il frutto di duro lavoro, sacrifici, passione e rinunce che gli hanno permesso di diventare quello che tutti abbiamo avuto modo di ammirare, quello che ci faceva meravigliare con una poderosa schiacciata, un elegantissimo fade-away, un tiro decisivo, un alley-oop a Shaquille O’Neal e tanto, ma veramente tanto altro.
In certi casi le parole o non servono o non si trovano. E anche se si trovassero, non basterebbero a spiegare l’enorme dolore per una perdita che ha scosso il basket, lo sport, l’umanità. Niente sarà più come prima, ma gli insegnamenti e i valori che il genio della palla a spicchi ci ha tramandato non lo potranno mai cancellare dal nostro cuore. Grazie di tutto, Kobe.